Ci sono film che ti fanno uscire dalla sala con l’impressione di essere più intelligente di quando ci sei entrato. E’ il caso della conferma Paul Schrader, che mi ha incantato ancora, dopo aver reso già la sua presenza preziosa quale co-autore di tante magnifiche storie Scorsesiane, impregnate di dilemmi e di umanità messe a dura prova da eventi che le riportano a fare i conti con un passato ingombrante per l’anima, con colpe che sono convinte di non poter espiare, come dice il protagonista ad un certo punto : “non c’è differenza tra il perdonare qualcuno o perdonare a se’ stessi, e non dovrebbe essere necessario distinguerle come sempre facciamo”. Sin dalle prime immagini quest’opera straordinaria, The card counter (tradotta malamente all’italiano Il collezionista di carte) si fa leggere in ogni più piccolo dettaglio dell’inquadratura, in un susseguirsi di simbologie che però non hanno il sapore del didascalismo, bensì del voler accompagnare lo spettatore al’ interno del racconto, scena dopo scena, con la lentezza della messa in scena che diventa quasi ipnotica, distante anni luce dalla frenesia a cui lo spettatore è oggi abituato , ma proprio per questo ancor più ricco di tensione emotiva. Una ricerca per immagini di leggere l’anima del protagonista, così come dei personaggi di contorno, in un parallelismo tra vita e gioco d’azzardo; come tra avversari ad un tavolo verde, che osservano le reciproche, impercettibili variazioni di espressione nei volti, anche solo quando reagiscono a una frase dell’interlocutore, alterando la loro espressione nel giro di pochi secondi. Lavoro certosino dell’attore su se’ stesso, ma anche del regista nell’affiancare gli eventi, o dello scenografo nel creare l’ambiente asettico di stanze d’albergo che diventano celle di tortura. Un personaggio, quello reso magistralmente dall’attore Oscar Isaac , che occupa gli spazi delle sue giornate trascinando con se’ il peso di un passato troppo vergognoso per poter essere perdonato, se non con gesti estremi o maturati a caro prezzo, e velati dalla cura nell’aspetto e la metodicità dei gesti.
I tre interpreti: Tiffany Haddish, Oscar Isaac, Tye Sheridan |
Non si può non ripensare a Taxi Driver, capolavoro di sceneggiatura del regista negli anni ’70, ma soprattutto , al suo più celebre film da regista, American Gigolo, con il finale ripreso quasi alla lettera: quel tocco umano e d’amore salvifico che però rimane interrotto da un vetro di separazione. C’è un contatto, c’è un residuo di umanità e di riscatto, ma forse è solo un’illusione , la necessità disperata di convincere se’ stessi. Volti e caratterizzazioni indimenticabili come nel più classico cinema anni ’70 nei suoi momenti d’oro, ma sottovoce, con colonna sonora pressoché inesistente ed immagini limpide ed essenziali, a partire dall’acconciatura e la gestualità di Isaac, obbligate ad apparire ordinate , con l’ausilio di una sceneggiatura da manuale che regala dialoghi in perfetto equilibrio tra profondità e sano godibile divertimento.
A Mario Martone il merito di aver trasmesso al grande pubblico la complessità e bellezza di un personaggio come Eduardo Scarpetta, che fa rivivere in immagini poetiche e meravigliosamente fotografate da Renato Berta, così come negli ambienti , resi perfettamente sia nella fatiscenza dei teatri inizio secolo, sia nelle residenze opulente e dannunziane. Si resta nel dubbio di quanto si debba alla realtà, che già si prestava da sola ad un racconto entusiasmante e ricco di avvenimenti, o delicati equilibri sociali e familiari, e quanto invece sorga semplicemente dalla creatività e il sogno del regista e della moglie Ippolita Di Majo , costante collaboratrice alle sceneggiature, nel voler rappresentare la loro idea e ammirazione per un’importante figura della loro tradizione regionale ma anche nazionale, che scaturisce dal racconto e da’ un’anima al film, grazie soprattutto all’opera straordinaria dell’interprete Toni Servillo, il quale presto svanisce per lasciare spazio allo Scarpetta che traspare da ogni inquadratura. Come solo i più grandi .
Eduardo Scarpetta (pronipote del vero Scarpetta, e interprete qui del figlio Vincenzo), assieme al giovane , sensibile interprete di Eduardo De Filippo bambino, Alessandro Manna |
Il film è un susseguirsi di battaglie, in molte accezioni del termine, si pensi alla performance teatrale nella difesa in tribunale, passando per quella con D’Annunzio a suon di punti di vista sull’Arte che entrambi a loro modo rappresentavano al tempo, Arte che diventa vera e propria arma tra le mani di due contendenti, ma anche battaglia con se’ stesso, quando si deve far conto del tempo che passa, cambiando le prospettive, mostrando che la propria immortalità non corrisponderà a quella sul piano fisico, che dovrà invece portare delle responsabilità, dopo che per tutta la vita le si è nascoste sotto le maschere regalate dal fatto di averla spesa tutta per un’Arte, con la convinzione che non possa esistere un altrove.
Tomasz Zietek in una scena |
Jacek Braciak |
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