lunedì 1 marzo 2021

Fran Lebowitz: Una vita a New York (Pretend it's a city)





 Le piattaforme che oggi sembrano offrirci in un piatto d'argento una vasta gamma di spettacoli, cinema, documentari, serie tv, rischiano l'imposizione di "contenuti" fini a se stessi col pericolo di togliere allo spettatore la propria libertà di scelta e di indirizzarne i gusti? Il regista Martin Scorsese è stato ultimamente al centro di polemiche ispirate da questo quesito, quando ha preso posizione verso un certo cinema a rischio di omologazione (non solo i film di super-eroi, ma molto cinema di oggi più attento a riempire di contenuti le due ore medie di durata di una visione, che non a suggerirne un rinnovamento, un 'attenzione affinché " il tutto conti", a livello di comparto tecnico di un'opera cinematografica o televisiva, problema questo affrontato nella sua riflessione/ confronto col cinema di Fellini, apparso su Harper's Magazine). Quasi egli si sia sentito, come sarà capitato a molti di recente, "accompagnato per mano", "imboccato" nella scelta di cosa vedere, pilotato da algoritmi che pretendono di conoscere ormai i gusti e il gradimento medio degli utenti. Lo si è accusato di sputare nel piatto in cui mangia, accettando di finanziare le sue ultime produzioni tramite uno dei principali colpevoli di tale degrado nella fruizione cinematografica, ossia Netflix. Eppure, con la miniserie da lui co-diretta e co-prodotta con l'umorista e scrittrice Newyorchese Fran Lebowitz, difende , e conferma, benissimo il suo stile personale e rigoroso , da autore e amante di un cinema come si faceva una volta, aggiungendo un tassello prezioso alla sua filmografia, dove grazie alla sua leggendaria capacità di narratore e osservatore sensibile della realtà che lo circonda, le esperienze di vita vissuta possono diventare episodi godibili di una finzione cinematografica (vedi l'auto citazione da Tutto in una notte , con la folle corsa in taxi).


Il centro narrativo di questo ultimo suo lavoro, "Pretend It's A City" (riferito a New York City), si direbbe chiaramente ispirato dalla sua insofferenza verso una tale situazione di alterazioni e forzature nella percezione : il voler salvare la capacità degli spettatori di andare oltre la superficie delle immagini, che spesso hanno il potere di ingannare l'occhio, offuscando la capacità di leggere davvero la realtà che nascondono. Il voler lottare per seguirne con autenticità i cambiamenti, restando al passo con essi , ma senza per questo perdere originalità nello stile.





Con la scusa di raccontare la sua vecchia amica Fran Lebowitz, storica presenza nella scena intellettuale e letteraria newyorkese sin dagli anni '70, Scorsese seziona la città alla ricerca di stralci urbani solitamente ignoti ad abitanti o visitatori distratti, ma anche all'occhio dello spettatore abituato alla fascinazione della Grande Mela dettata da stereotipi o esperienze fugaci. Non sono solamente le piastrelle dove si leggono citazioni o commemorazioni di edifici o personaggi storici , ma soprattutto la condivisione dei contatti umani della narratrice, i suoi ricordi e i suoi punti di vista, per quanto non sempre condivisibili , e spesso pervasi della sua incallita misantropia, a regalarci uno sguardo nuovo sulla città.



Con Andy Warhol negli anni della Factory
Sette puntate, di circa mezz'ora l'una, scorrono via in un lampo nelle mani esperte del regista, che evita che il fiume ininterrotto di parole della Lebowitz sommerga lo spettatore, mantenendosi in equilibrio tra i toni cinici e dissacratori della narratrice, e la delicatezza che pervade le immagini della città, che si ama perché non si ha scelta ("dove altro potrei vivere?") e nonostante i suoi lati oscuri, i suoi molti luoghi dedicati al quotidiano ma lasciati al degrado, ma un degrado nascosto da opere d'arte che sbucano ad ogni angolo non sospetto, e dove le finanze necessarie alle ristrutturazioni sono invece
investite nella bellezza , come se l'estetica dovesse prima di tutto distrarre dai disagi e spargersi ovunque si possa. Ci vuole qualche momento, all'inizio della serie, perché l'occhio capisca di osservare un plastico e non la città vera, ed in questo risiede la genialità registica: vediamo prima ciò che la nostra mente ha costruito nel suo immaginario, ma se poi veniamo accompagnati oltre, scopriamo ciò che all'inizio ci veniva nascosto, andando aldilà del primo contatto, sia esso con un'immagine , sia esso con un vicino, un passante per il quale sembravamo non esistere. Ma invece ci siamo, e dobbiamo far si che la bellezza che ci circonda non venga dispersa nel mare delle contraddizioni: tanto quelle di New York quanto quelle, meno simboliche o meno evidenti, nascoste dietro ogni angolo delle strade che percorriamo abitualmente, o dietro ogni esperienza che viviamo nell'odierna società in trasformazione.

Con amore, Honeybunny

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